Il processo di integrazione europea ha da sempre sullo sfondo l’idea di sfociare in una federazione di Stati non più sovrani. Nel Manifesto di Ventotene, l’eliminazione delle sovranità statali era l’obiettivo dichiarato, senza che fosse prevista alcuna tappa intermedia. Tuttavia, questa meta appartiene anche all’approccio più cauto e “lento pede” avviato con la costituzione della Comunità economica del carbone e dell’acciaio, che ha è stata la prima tappa del processo di integrazione: nomina infatti la prospettiva della federazione la stessa Dichiarazione Schuman del 1950, che ha lanciato l’idea di questa prima Comunità.
A partire dalla Dichiarazione Schuman e fino ai nostri giorni, l’epilogo della federazione di Stati non più sovrani ha rappresentato più che altro una chimera. Il processo di integrazione è avanzato con il metodo funzionalista: si sono “messi in comune” alcuni temi, che sono diventati via via sempre più numerosi perché il “governo comune” di uno ha fatto fa nascere l’esigenza del “governo comune” di un altro, e questo secondo ha fatto nascere l’esigenza di “governo comune” di un altro ancora, eccetera eccetera. Grazie al metodo funzionalista abbiamo ad esempio la moneta comune e le politiche comuni delle frontiere, dell’immigrazione e dell’asilo, che forse a mente fredda nessuno Stato desiderava ma sono diventate necessarie.
Ebbene, se il “metodo funzionalista” ci ha portati fin qui, ora non basta più. Il mondo multipolare che si è ormai affermato con ineludibile chiarezza, a partire dall’aggressione russa all’Ucraina, impone di rompere gli indugi e di arrivare senz’altro alla soluzione federalista. L’Unione europea ha bisogno di diventare una “potenza” per continuare a esistere con la propria identità e i propri valori. Ha bisogno di essere, nei rapporti con il resto del mondo, un unico soggetto.
Per realizzare l'obbiettivo di un'Europa federale, è necessario compiere quel passaggio alla difesa comune prefigurato nell’art. 42 del Trattato sull’Unione europea.
Ma difesa comune non può significare mero coordinamento, per quanto stretto, degli equipaggiamenti militari e dell’addestramento, né disponibilità immediata di contingenti che restano nazionali ancorché posti sotto un comando comune, all’occorrenza di una specifica missione. Queste possono essere semmai (brevi) tappe di avvicinamento, sul modello delle fasi preliminari dell’Unione economica e monetaria (peraltro, la seconda delle due modalità prospettate ci è già familiare, nel quadro NATO e della stessa Unione).
Difesa comune deve significare creazione di forze armate comuni sotto un comando comune e finalizzate alla realizzazione di una politica estera unitaria. Se non tutti gli Stati sono pronti, in termini di equipaggiamento e organizzazione o per motivi politici, si userà la metodologia dell’integrazione differenziata, che nell’Unione si è sempre caratterizzata costantemente per l’apertura verso gli Stati che solo temporaneamente “restano indietro”.
Insieme ad gruppo di esperti di area liberaldemocratica ho contribuito alla redazione di questa proposta:
La politica dell'immigrazione è cruciale, sicuramente per l'Italia, e per molti stati membri. La proposta è quella che nella prossima legislatura si lavori, in maniera seria e con un deciso cambio di passo rispetto a quanto fatto finora, a definire un quadro di regole che favorisca l'immigrazione legale rispetto agli arrivi irregolari.
Dal punto di vista economico, gli stati europei, in profondo calo demografico, hanno bisogno di forze nuove e quindi di cittadini di stati terzi.
Ma c'è anche un tema etico. In questa legislatura si è lavorato sulla riforma del diritto dell'immigrazione e dell'asilo. La nuova normativa ha dei pregi - perché scarica in parte l'onere dell'immigrazione irregolare dagli stati di primo ingresso - ma ha anche dei rilevanti difetti - perché introduce una esternalizzazione delle frontiere, per cui gli immigrati irregolari è come se non fossero ancora entrati in Europa. E ciò mette in campo, nei fatti, massicce e strutturali violazione dei diritti fondamentali di queste persone.
Esiste, evidentemente, un disegno politico dietro a questa scelta, in cui il tema dell'immigrazione irregolare viene affrontato con una logica prevalentemente sicuritaria, alimenta dalla paura di chi arriva in modo irregolare, con il pretesto di voler lottare contro la criminalità organizzata.
Per comprendere appieno il ruolo odierno dell'immigrazione occorre uscire dalle sacche di emarginazione urbana legate allo spaccio di droga e visitare un cantiere edile, piuttosto che girare per le campagne, dove troverete raramente un italiano che si "sporca le mani" con il cemento o con la terra. Ma ancora più promettente è il ruolo dell'importazione di cervelli: le nostre università sono già oggi piene di studenti stranieri provenienti da molte parti del mondo che sono attratti dalla nostra cultura. Questi potranno essere dei futuri cittadini e una fonte importante di lavoratori qualificati per le nostre imprese, se sapremo accoglierli in modo dignitoso: purtroppo, la trafila burocratica per ottenere un permesso di soggiorno o semplicemente per affittare un'abitazione in modo regolare è farraginosa e per certi versi umiliante .
L'introduzione dell'Euro è stato un passo fondamentale nel processo di creazione di una unione monetaria e finanziaria.
L'armonizzazione dei livelli di tassazione resta però un tema aperto, sia per via dei paesi che utilizzano la leva fiscale per attrarre la localizzazione di società commerciali (es. Irlanda 12.5%, Lussemburgo 17%, contro il 24% in Italia), sia per paesi che favoriscono la costituzione di holding con una fiscalità competitiva per famiglie e gruppi industriali (es. Olanda), sia per i paesi che offrono vantaggi fiscali alle persone fisiche titolari di pensione (es. Portogallo - fino al 2023, Grecia, Cipro).
E' necessaria quindi una regolamentazione complessiva per evitare indebiti vantaggi competitivi di alcuni paesi rispetto ad altri: ad esempio il pil pro-capite in Irlanda è quasi triplicato negli ultimi 20 anni, mentre in Italia è rimasto stagnante.
Per combattere l'effetto serra e i cambiamenti climatici, la politica energetica deve avere tra i suoi obiettivi quello di ridurre la quantità di CO2 immessa in ambiente. Le energie rinnovabili (es. idrico, geotermico, eolico, solare) hanno il pregio di consumare meno materie prime rispetto alle energie fossili (carbone, petrolio, gas). Ma così come il nucleare richiede di estrarre e arricchire l'uranio, anche per produrre energia rinnovabile occorrono grandi quantità di materiali (silicio per i pannelli solari, acciaio per le pale eoliche, cemento per le dighe).
Partiamo quindi dal presupposto che tecnicamente non è ad oggi possibile annullare totalmente le emissioni di anidride carbonica nelle diverse pratiche produttive, e che quindi non è possibile parlare di completa neutralità, ai fini del cambiamento climatico.
Inoltre, allo stato le rinnovabili non consentono una produzione continua di energia (non riusciamo a controllare sole e vento) e richiederebbero una notevole capacità di accumulo (batterie) che renderebbe il sistema complessivo molto impattante dal punto di vista ambientale mentre le capacità di accumulo sono limitate.
Serve organizzare a livello europeo un giusto mix di rinnovabili, nucleare e fossili, riducendo sempre più queste ultime, annullando il prima possibile l'uso del carbone e utilizzando il gas come fonte di transizione. Occorre poi puntare sulla ricerca e l'innovazione al fine di spostare le aliquote verso le fonti energetiche "carbon free" nel corso degli anni, come in parte sta già accadendo. Se da un lato, per espressa previsione del Trattato sul funzionamento UE, l'Unione non può (ad oggi) imporre agli Stati membri la scelta di una fonte di energia, essa può sostenere le politiche di incentivi e gli investimenti pubblici per minimizzare l'uso di fonti fossili.
Occorre poi considerare che l'Europa è ben lontana dall'essere una produttrice determinante di gas serra a livello planetario. Spingere su politiche energetiche "estreme" è pertanto poco utile per lo scopo di proteggere l'ambiente e di contrastare il cambiamento climatico; piuttosto potrebbe incidere negativamente sulla capacità competitiva dell'Europa e quindi sulla possibilità di investire in ricerca ed innovazione, trasferendo sui cittadini gli effetti economicamente negativi di tali scelte.
I tempi che l'Europa si è data per conseguire l'obbiettivo della transizione energetica dai fossili alle rinnovabili non sono credibili. Il green deal mette troppa carne al fuoco con scarsa pianificazione. E' invece necessario prevedere l'armonizzazione delle normative nei singoli stati membri al fine di adottare una strategia fondata su tre pilastri:
produzione energetica, annullare a tendere la produzione da fonti fossili a partire dal carbone. Ciò può essere conseguito in gran parte con le rinnovabili e con il nucleare. Nel creare una base comune di regole e opportunità, occorre accettare le differenze esistenti tra i diversi Paesi membri che tenderanno a favorire una fonte piuttosto che un'altra in funzione delle proprie condizioni: in generale, eolico sulle coste marittime settentrioni, solare alle latitudini più basse.
efficientamento energetico, si devono sviluppare nuove tecnologie che permettano di minimizzare i consumi di alcuni settori industriali particolarmente energivori, di rivoluzionare la mobilità urbana a favore di modalità maggiormente sostenibili e riducendo il numero di spostamenti (smart working), di ridurre gli sprechi della rete di distribuzione.
disponibilità di materie prima, occorre favorire il riuso laddove possibile nello spirito di un'economia circolare, a partire dai rifiuti.